Adagiato nella poltrona rullante di mogano rossastro, le borchie e gli ornamenti in bronzo dorato e il sedile foderato di broccato turchino scuro, Tino di Scorzon, uscito dal letto della sofferenza, avvolto nella vestaglia, i piedi nelle morbide pantofole, la sigaretta fra le labbra, se ne stava da un poco sul terrazzo che si apriva davanti la camera che lo ospitava.
Tino di Scorzon era stato, tre mesi prima, trasportato dalla fronte in miserande condizioni. Gravemente ferito, egli era caduto nella neve alta e quivi rimasto per un'intera giornata in mezzo a un cumulo sanguinolento di compagni, quali irrigiditi dalla morte, pochi, come lui, crudelmente feriti. Lì, fra la neve rossa di sangue, egli sarebbe certamente perito al pari di parecchi suoi commilitoni, senza l'eroico aiuto del suo attendente, che al cadere della notte, strisciando su lo strato morbido e insidioso, sfidando i proiettili che saettavano da ogni parte, riusciva, a forza di stenti, a trarlo di là, svenuto, esangue, morente. Dall'ospedaletto da campo, subito dopo la prima medicazione, l'avevano portato nell'ospedale meno lontano: nella villa generosamente offerta dal proprietario a la Croce Rossa, allo scopo di raccogliervi i feriti in guerra.